Alberto ed io avevamo fatto amicizia nell’estate del 1977, tramite il “Cip” che era un amico comune. Ci trovavamo a Capodimonte, sul Lago di Bolsena, ed eravamo nel mese di luglio.
Eravamo nel cuore delle vacanze estive.
All’epoca erano interminabili per noi, che avendo la fortuna di avere una casa per le vacanze, avevamo più di tre mesi da spendere per nuove amicizie, esperienze, divertimenti… soprattutto libertà.
Sì, perché le vacanze estive erano quelle con la “V” maiuscola. Erano una zona franca anche nella mentalità delle nostre famiglie. Venivamo tutti da Roma: la città con i suoi lati oscuri, “pericolosa”, che riempiva le cronache di fatti preoccupanti. E se anche gente normale come noi non viveva in un contesto che poteva toccarci (ve l’immaginate un rapimento? un attentato? Ma chi potevamo mai essere?), nella mente delle nostre famiglie queste eventualità erano (seppur moderatamente) latenti. C’è da dire che quella era l’epoca del terrorismo, delle stragi, dei rapimenti, delle lotte politiche in cui rossi e neri si cercavano per punizioni e vendette. Erano gli anni in cui Roma era in mano ad una Banda della Magliana che tirava i fili rimanendo nell’ombra. E poi le Brigate Rosse… i Nar…
Nemmeno me li ricordo tutti!
Oggi sembra così distante nelle nostre menti e per le nostre abitudini, ma all’epoca…
…All’epoca, in un paese come Capodimonte eravamo sempre sbalorditi del fatto che tutti tenessero le chiavi sulle porte di casa, i cancelli ed i garage aperti, le biciclette ed i motorini in strada senza lucchetto.
Ebbene, in quei luoghi tranquilli ma suggestivi, ricchi di storia ed ancora non scoperti dal turismo di massa, Alberto ed io avevamo sviluppato un forte interesse verso la civiltà etrusca. Ne eravamo affascinati e andavamo continuamente alla ricerca di siti spostandoci con i nostri fedeli, inseparabili motorini.
Credo che in quegli anni abbiamo visitato tutti i siti e le necropoli presenti nella Tuscia Viterbese e non saprei veramente dire quanti chilometri avremo percorso.
Ora, si dà il caso che l’inizio di questa nostra passione fosse proprio a due passi da casa. A circa 5 km da Capodimonte, andando verso Valentano, c’è una specie di “panettone” che si alza dalla riva del lago: Monte Bisenzio.
Questo è uno dei più antichi siti archeologici etruschi e risale alla fine dell’età del Bronzo, in cui era già presente un piccolo insediamento che, nella successiva età del Ferro, divenne un vero e proprio centro abitato che aveva il controllo di tutta la sponda occidentale del lago.
Il suo periodo di massimo splendore fu tra il secolo IX ed il secolo VIII aC, dopodiché iniziò la lenta decadenza a causa dell’espansione di Velzna (l’attuale Bolsena) e di Grotte di Castro.
Qui sono state trovate delle grandi necropoli con tombe a pozzetto e a camera che contenevano ricchi corredi in bronzo e utensili. Oggi si visitano trovandole in ordine sparso per il monte, camminando per i pendii scoscesi e tra i rovi, e sono, ovviamente, assolutamente spoglie, ma molto suggestive.
Dalla prima volta che ci andammo, da quell’estate del 1977, con i nostri primi motorini (Alberto aveva un Ciao Piaggio giallo che la sorella, più grande di lui, non usava quasi più ed io un Garelli Katia, di quelli con le ruote piccole) il Monte esercitò sempre un grande fascino su di noi. Sarà stata la presenza di quelle tombe a camera disseminate qua e là, la fitta vegetazione che creava una cupola nella quale ogni suono veniva amplificato, il pungente odore di mentuccia sullo spiazzo aperto della sua sommità, i roccioni che terminavano a strapiombo sul lago… Chissà.
Adesso vengo ai fatti di due estati dopo (anno 1979) con quello che avevo scritto all’epoca.
Possedevo infatti una vecchia agenda con la copertina rossa in similpelle. Era rimasta inutilizzata da qualche anno tra quelle che mio zio portava dall’ufficio. Le avevo tolto ogni riferimento pubblicitario, promozionale e di anno, tranne i giorni sulle pagine (che non disturbavano più di tanto).
La usavo da quel 1977 in cui era iniziato il sodalizio con Alberto come memo-libro-diario per farne, col tempo, un manuale, come si può vedere dalla sua prima pagina, nella foto qui sotto.
Esplorare ed arrangiarsi
di
Stefano Martini
Diario di avventure vere e ricettacolo di consigli e sperimentazioni per la vita a contatto con la natura
Con una premessa del genere, prometteva grandi cose: sarebbe venuta un’opera ciclopica!
Inutile dire che questo manuale non vide mai la fine, ma oggi è comunque prezioso per me e lo custodisco con una tenera gelosia.
Allora: da qui in avanti è testimonianza “fresca” dell’epoca, tutto scritto nero su bianco!
Domenica 26 agosto 1979.
Era una giornata incerta con nuvole basse e fitte. Ogni tanto, uno spiraglio faceva filtrare un po’ di sole. Tutte le volte che eravamo andati alla spiaggetta dopo il Monte, avevamo sempre avuto in mente di risalirlo a piedi grazie ad un passaggio che si vedeva aprirsi nella fitta vegetazione vicino alla riva del lago: un “sentierino dei cacciatori”, come lo chiamavamo noi.
Quel giorno era perfetto. Partiamo nel primissimo pomeriggio da Capodimonte decidendo di andarci a piedi. Una bella camminata che faceva più “avventura”!
Arriviamo alla spiaggetta in 45 minuti.
Per comodità e maggiore chiarezza, riporto la mappa che disegnai all’epoca sull’agenda, con alcuni riferimenti:
PICCIONAIA: è una doppia stanza di colombari scavata nella roccia, quasi sulla sommità del Monte, con una spaccatura che fa da finestrone aperto a strapiombo sul lago.
ROCCIONE: è un balcone naturale formato da una roccia piatta che si affaccia nel vuoto ed è un po’ più in alto rispetto alla Piccionaia.
Per la nostra spedizione abbiamo ipotizzato che il sentierino ci consentirà di risalire per tutto il versante nord fino alla tomba crollata. Da lì potremo guadagnare la cima e ridiscendere dal versante che dà verso Capodimonte (sulla destra del disegno).
Ora siamo esattamente nel punto segnato con l’asterisco sulla mappa, ai limiti della fitta vegetazione, e possiamo vedere ben tre diramazioni di sentierini.
Prendiamo quello che ci sembra essere il più logico per la risalita, infilandoci nella boscaglia.
Il sentierino prosegue parallelamente alla costa.
Alla nostra destra, il versante del Monte sembra molto ripido ed è pieno di rovi e cespugli. A sinistra, la stessa intricata vegetazione che scende verso il lago, nasconde tutto alla nostra vista.
Percorriamo circa 200 metri e, stranamente, ci troviamo avvolti nel silenzio: gli uccelli non cantano più. La spiegazione potrebbe essere legata alla nostra presenza, ma non ci era mai successo in precedenza. Quel giorno il lago era piatto come una superficie di vetro, non c’era un alito di vento; ogni rumore si sentiva benissimo e forse proprio per questo ci colpì maggiormente quell’improvviso silenzio.
Cominciò da lì.
Oltre i rovi alla nostra sinistra (verso valle, cioè verso il lago) sentiamo improvvisamente dei passi gravi, di un corpo pesante, bipede, che aveva le falcate lunghe.
Con pochi tonfi ed in pochi secondi, ci supera ed è a una cinquantina di metri avanti a noi, proprio dove un alto cespuglio taglia il sentiero.
Noi rimaniamo immobili e sconcertati non sapendo che fare. Quei passi pesanti non erano stati veloci, ma ampi. E come è stato possibile un movimento così fluido in mezzo a rovi, cespugli e, perdipiù, su un terreno così scosceso?
Anche se all’epoca non l’avevo trascritto, ricordo ancora bene il secco e preoccupato commento di Alberto mentre mi guardava:
– Me cojoni!
Lo sussurrò appena, ma in quelle particolari condizioni, sembrò che l’avesse urlato. Ricorderò sempre quel momento: eravamo solo noi due, come proiettati fuori dal mondo, a tu per tu con l’ignoto e… la paura.
Alberto, cautamente, prende il suo fedele coltello che aveva dai tempi in cui era stato Scout e mi domanda cosa vogliamo fare.
Non esito neanche un po’: tornare sui nostri passi!
La mia risposta fu dettata soprattutto dal calcolo del rischio: eravamo a piedi, comunque lontani da casa e le nostre famiglie non sapevano dove fossimo andati.
Lì, più avanti c’era qualcuno che si era fermato e sicuramente ci stava osservando. Di chi (o di che) poteva trattarsi?
Vagliamo le possibilità:
– Un tombarolo. Ma non era quello un posto dove provare ancora a cercare qualche reperto; e poi, come aveva fatto a spostarsi in quella maniera?
– Un finanziere. Idem come sopra, con l’aggiunta che si sarebbe palesato (i finanzieri sorvegliavano spesso il Monte, ma più che altro dall’elicottero).
– Un cacciatore. Idem come sopra.
– Un malintenzionato. Poteva essere; non si sarebbe certo palesato, ma rimaneva l’anomalia di come si spostava.
– Un animale (cinghiale?). No; era inconfutabilmente un bipede. Inoltre, un animale ansima, grugnisce, respira… scappa.
Proviamo a chiedere chi c’è. In questo caso un benintenzionato si sarebbe manifestato. Niente.
Facciamo un secondo tentativo a voce più alta. Ancora niente. Quello ci aspettava lì, dietro quel grosso cespuglio che tagliava il sentiero e non fiatava.
Alberto propone di andare avanti “sennò resteremo sempre col dubbio!”
Io non ci penso nemmeno e rispondo che potrò vivere benissimo tenendomi curiosità e dubbio. L’amico si convince subito e decidiamo di battere in ritirata. Ma c’è un problema: non vogliamo volgere le spalle al cespuglio. Tutto lì, in quella strana situazione, consigliava estrema prudenza.
Allora Alberto propone una vecchia astuzia indiana: uno resta fermo a guardare il cespuglio mentre l’altro indietreggia rapido di una ventina di passi, poi si ferma, si gira a guardare dietro e permette al primo di raggiungerlo velocemente;
in questo modo si batte in rapida ritirata mantenendo la guardia e le spalle coperte.
Il primo centinaio di metri lo abbiamo fatto così, poi ci siamo molto affrettati per uscire dalla boscaglia, abbandonando l’astuzia indiana, e guardandoci dietro di continuo.
Quasi alla fine del sentierino abbiamo risentito quei passi pesanti, ampi e cadenzati alla nostra sinistra, in alto, dalla parte opposta a quella di prima. Era ancora impossibile vedere di cosa si trattasse dietro rovi e cespugli.
Via! una fuga precipitosa e scomposta per le ultime decine di metri, fino ad uscire sulla spiaggetta. Ancora oggi, ripensandoci, ho impresse nettamente due forti sensazioni: la prima riguarda ciò che vedevo del sentiero mentre correvo verso lo sbocco; sembrava che ogni arbusto, ramo o altro, mi venisse incontro per urtarmi finché non lo vedevo schivato. La seconda è stata di venire letteralmente sputati sulla spiaggia dal monte che non aveva potuto ingoiarci.
Ci guardammo attorno rendendoci conto di quanto fosse tetro quel contesto, con l’acqua del lago scura che sembrava sul punto di bollire ed il cielo basso e plumbeo.
Ormai si sentiva forte l’odore della pioggia.
Percorriamo la strada in terra battuta e la salita per sbucare sulla Provinciale. Camminiamo ancora e, arrivati quasi al campo sportivo, ci voltiamo per dare uno sguardo al monte (la prospettiva era più o meno quella della foto qui sotto, ma più vicini).
Sulla sommità c’erano due pini, non enormi, di quelli con la chioma a palla (oggi non ci sono più); saranno stati alti più o meno 6-7 metri e distanti tra loro 10-15 metri; ebbene, tra quei due alberi spiccava una cosa ovale di colore bianco lucido (quasi argenteo, ma non di color argento) con un’altra cosa piccola dello stesso colore che si muoveva, sparendo ogni tanto dentro a quella grande.
Ricordo bene che appena visto, commentammo tra di noi il fatto che allora c’era veramente qualcuno lì! Qualcuno che stava caricando delle cose in un automezzo… Ma realizzammo subito dopo che era impossibile salire con un automezzo: non c’era lo spazio necessario e, in più, la strada per arrivarci era una vera mulattiera (ci si riusciva a malapena con alcune auto “da campagnoli”).
Per ultimo, ragionammo sulla cosa più logica: avevamo pensato ad un automezzo perché la sua superficie era di colore uniforme e non c’erano interruzioni scure di finestrini; poi quell’altra cosa che entrava e usciva aveva più o meno le proporzioni di un uomo vicino ad un camion… ma le proporzioni del “mezzo” in confronto agli alberi?
Era alto come le chiome dei pini e quest’osservazione dava, in più, una misura diversa anche per quella cosa che entrava e usciva… Diciamo 6 metri di altezza per una decina di lunghezza per l’ovoide e 2 metri abbondanti per la cosa più piccola che gli trafficava accanto. Ho fatto una ricostruzione molto sommaria per rendere l’idea:
1) pini 2) ovoide 3) umanoide
Alberto propone di avvicinarci da questo versante passando tra gli ulivi in modo da non essere scorti, mentre io pretendo di andare a casa, prendere motorini e binocolo e tornare.
La verità è che avevo paura ed il pensiero che quell’affare lassù avesse a che fare con ciò che avevamo avuto vicino nella boscaglia, mi riempiva di panico (e non esagero!). Per fortuna Alberto accetta questa soluzione seppure con qualche riserva.
Un suo amico maggiorenne proveniente da Valentano che ci dà un passaggio in macchina, è provvidenziale e ci permette di accelerare i tempi. In dieci minuti siamo di ritorno con i motorini ed il binocolo sfidando le goccioline di pioggia che avevano iniziato a cadere.
Sul monte non c’era più nulla. Ho provato delusione e gioia in uguale misura.
Poi ho sparato un “CI VAI DA SOLO!” ad Alberto dopo che, eccitatissimo, voleva salire su con i motorini per vedere se c’erano delle tracce.
Che ci si creda o no, sono salito di nuovo al Monte soltanto due anni dopo. E poi mi è sempre rimasto un dubbio: Alberto era incosciente o coraggioso?
Qualche analisi
Ragionandoci a freddo, è stato quasi naturale attribuire una natura extraterrestre a quella cosa. Non ne abbiamo mai parlato né con gli amici che frequentavamo all’epoca, né con le nostre famiglie. I primi ci avrebbero preso in giro alla grande, spargendo la voce e facendoci diventare gli zimbelli della zona (anche in questo si vede la differenza con i giorni nostri: allora la gente era molto disincantata!). Per quanto riguarda invece le famiglie, volevamo evitare di farci chiudere in cantina fino al termine delle vacanze, cosa che sarebbe successa se solo avessero saputo quello che facevamo quando dicevamo “…vado con Alberto / Stefano, che ci facciamo un giretto!”
All’epoca non lo sapevo perché i miei interessi erano rivolti ad altri campi, perché ero un fanatico della logica razionale e forse perché certe informazioni non erano a portata di tutti come oggi, ma la zona del Lago di Bolsena è sempre stata ricca di avvistamenti. A dirla tutta, sembra che ci sia una stretta connessione con i laghi. Forse che l’acqua offra un comodo nascondiglio? O forse fa funzionare meglio qualche dispositivo di dissimulazione? Potrebbe essere, altrimenti, che gli extraterrestri vengano per rifornirsi di acqua o di qualcosa legato all’acqua?