Oggi ha i ricordi di un bambino che ci passava spesso nel periodo delle feste natalizie, per andare alla radiosa Piazza Navona; quella addobbata, quella con i Babbo Natale, quella con i banchi di dolciumi e giocattoli.
Soprattutto giocattoli.
Ed era stridente la differenza tra le due piazze. Quella delle Coppelle emanava odori forti di frutta e verdura marcite nei bidoni dell’immondizia, non era pulita.
Per arrivarci c’erano due percorsi: quel bambino insisteva sempre per passare nello stretto vicolo curvo che sembrava inghiottirti. Un percorso inquietante per accedere ad un sito segreto.
Dopo averla passata si aveva la sensazione di aver fatto un guado, perché la bella meta era vicina.
Ma sul restante tragitto rimaneva ancora un punto di grande ed oscura attrazione: il piccolo e misterioso laboratorio dell’imbalsamatore, sotto un arco, quasi allo sbocco di Corso del Rinascimento.
Sono i ricordi del bambino che ero io tra la fine del 1960 e i primi anni del 1970. Nel 1968 avevo sei anni e mi attraevano in uguale misura sia le cose sfavillanti che il buio. Ogni cosa era degna del mio interesse e delle mie riflessioni. Avevo già iniziato ad inventare storie che poi mi raccontavo, ma ancora non pensavo di scriverle: a quell’età è impossibile avere dell’hardware segreto, perché i genitori arrivano dappertutto, ti giudicano, ti danno buoni consigli e ti fanno correggere il tiro. Poi magari pensano che tu possa essere strano e cominciano a cercare qualche medico che ti curi.
Sul tuo software, invece, non possono dire niente. E’ vero che loro ti hanno dato il manuale d’istruzioni attraverso la genetica, ma i programmi sei tu che li scrivi.
La piazza era completamente bagnata e lo stillicidio interminabile di quel giugno romano, sfociò in un bel temporale.
Tutto era iniziato, come spesso avviene, con il brontolìo dei tuoni che si avvicinava dalla direzione di San Pietro, fino a vedere i primi bagliori dei lampi ramificati che squarciavano il cielo della Capitale.
Qualche turista si fermò a rimirare quello spettacolo dal ponte di Castel Sant’Angelo. Qualcuno voleva approfittarne per cogliere fortuitamente il momento in cui avrebbe potuto fotografare quel ramo di energia vicino alla grande cupola, sullo sfondo, oppure riflesso nell’acqua del Tevere.
Ma la pioggia ingigantì le sue gocce costringendo tutti ad allontanarsi in cerca di riparo.A poche centinaia di metri in linea d’aria, all’interno della cinta di palazzi che costeggiano la sponda sinistra del fiume, un uomo attraversò di corsa Piazza delle Coppelle coprendosi la testa con un giornale comprato da poco e che non sarebbe mai stato letto.
L’ennesimo lampo che, per pochi decimi di secondo, rischiarò tutto, lo spinse a correre più veloce, facendolo abbassare istintivamente, come un soldato nel bel mezzo di un’azione bellica.Sul lato destro del portoncino più brutto, la targa bronzata non riluceva più ed era praticamente illegibile.
Sembrava antica, erosa dal tempo.(Dai Frammenti Di Un Diaro – pag.112)